Del suo viaggio in India Guido Gozzano serbò due soli componimenti: Kitty, vivace ritratto di una spregiudicata ragazza americana, e il più breve Risveglio sul Picco d’Adamo, cronaca trasfigurata di un mattutino esotico in distici a rime alterne:
Cantare udivo un gallo in sogno… Sognavo un villaggio
canavesano forse… L’aurora improvvisa mi desta.
Mi desta nel rifugio di stuoia sul Picco selvaggio:
d’un tremolìo d’acquario scintilla la selva ridesta.
Le felci arborescenti contendono i raggi all’aurora,
dall’uno all’altro fusto s’allaccia la flora demente,
spezzo ghirlande azzurre gialle sanguigne, m’irrora
la coppa del calladio, l’orciuolo della nepente…
Cantava un gallo in sogno… Ma un gallo ben vivo risponde.
Sobbalzo. Ascolto. Il cuore col battito colma le tregue.
Regna il Re dei cortili le vergini selve profonde?
M’illude un negromante per gioco? Il mio sogno prosegue?
Non il Re dei cortili qui regna, ma l’avo selvaggio
(già cantava sul Picco d’Adamo che Adamo non era).
Canta il “gallo bankywa” l’aurora del Tropico, il raggio
d’oro che scende obliquo dove la jungla è più nera.
Apparsa sulla rivista Aprutium nell’ottobre-novembre 1913, tale poesia fu riportata agli onori della comunità accademica dall’italianista Franco Contorbia, che nel 1971 ne pubblicò un dotto commento sulla rivista Strumenti Critici.
A Ceylon, sul Picco d’Adamo (in realtà il monte Samanalakanda, 2243 m.), il giovane Guido, malato in cerca di climi favorevoli, trascorre (o immagina di trascorrere) una piccola parte del suo soggiorno indiano, iniziato nel febbraio 1912 e terminato nell’aprile dello stesso anno. Tra il sonno e la veglia confonde il ruspante Re dei cortili piemontesi con il gallo Bankywa, l’antenato selvatico da cui si ritiene discenda il gallo domestico.
Nel luogo primigenio e intatto che i cristiani associavano ad Adamo, gli induisti a Rāma o a Śiva e i buddhisti a Buddha, la foresta mostra due volti, rappresentando tanto l’Eden virginale che tutte le tradizioni orientali pongono sulla cima di un monte, quanto un intrico oscuro e caotico, popolato di presenze minacciose e infernali. Per queste ultime il Gozzano si ispira palesemente alla selva dantesca, richiamata dagli aggettivi selvaggio e nera (ovvero oscura) e dalla presenza di una flora demoniaca e allucinante.
Tuttavia, il canto del gallo ha il potere di sciogliere l’intrico vegetale: nell’abbraccio tra felci arborescenti e aurora è proprio il raggio d’oro che l’animale annuncia ad averla vinta sulla selva impenetrabile.
Dietro la levità e l’ironia, cifre consuete del dettato gozzaniano, si celano temi archetipici quali l’eterna lotta fra la luce e le tenebre e l’alleanza fra il gallo e l’aurora.
La storia di tali archetipi, pur declinandosi nelle culture più varie, trae linfa proprio dall’oriente indoiranico, che il giovane poeta conosceva per vie mediate e letterarie.
Un indologo italiano, Daniele Maggi, ha infatti notato come l’ispirazione del Gozzano si debba in parte a un’ode barbara carducciana in distici elegiaci intitolata All’aurora. Il Carducci veniva influenzato, negli anni ’70 dell’Ottocento, dalle traduzioni del Veda fatte in italiano dal Professor Michele Kerbaker, torinese d’origine e di scuola, che insegnava all’Orientale di Napoli. L’idea di Kerbaker, filologicamente assai discutibile, era stata quella di “rifare” un inno all’aurora confezionando un centone di strofe tratte da componimenti vedici: pubblicato nel 1879, il lavoro dello studioso impressionò molto il poeta livornese, che volle ricelebrare nella sua ode barbara la giovinetta rosea tremante, la pastorella del cielo che cantavano gli Aria. Non vi sono quindi galli, bensì ancestrali brahmani che accolgono l’alba sciogliendo le voci al cielo.
La cultura vedica, la più antica tra quelle attestate in India, attribuiva al momento mattutino un valore fondamentale; epperò dobbiamo osservare che i bellissimi inni dedicati all’aurora non hanno per oggetto la lotta della luce contro le tenebre (tema pure presente, ma minoritario), ma piuttosto la bellezza della dea, il suo potere seduttivo e la sua capacità di guidare gli uomini e gli animali da pascolo. Il canto del gallo compare solo nei cosiddetti Brāhmaṇa (sorta di letteratura commentaria posteriore ai Veda) e ha valore pienamente demonicida (il gallo stermina con la lingua di miele gli antidèi, chiamati Asura).
Si deve invece alla letteratura iranica l’associazione esplicita del gallo con l’aurora: nel Vīdēvdād, libro dedicato a prescrizioni ed esorcismi e facente parte dell’Avesta, il volatile si chiama Parōdarš ‘colui che appare per primo’ o ‘vede per primo (l’alba)’ e ha il compito di svegliare i mortali; esso non combatte contro una lussureggiante selva tropicale, bensì contro una vecchia grigia dalle lunghe braccia, il demone del sonno, colei che induce a rimandare le proprie azioni in un futuro indeterminato. Il gallo affianca l’aurora incitando gli uomini ad alzarsi e a compiere il bene: crucciato e severo emissario dell’Ordine, manterrà tale ruolo anche nella tradizione cristiana.
Ha poi ragione il Maggi nel vedere ne l’avo selvaggio un’allusione al gallo silvestre di leopardiana memoria (1824). Il gallo silvestre dal corpo smisurato proviene al Leopardi ancora da un altro oriente, l’oriente semitico: è l’angelo ornitomorfo che Raffaele e Gabriele mostrano a Maometto durante la sua ascensione celeste (Libro della Scala), è colui che benedice ogni mattina le opere del signore facendo cantare tutti i galli della terra. Nulla di ciò, invero, troviamo nell’operetta morale a lui intitolata: il gigantesco animale sveglia anzi gli uomini perché riprendano sulle spalle il peso della vita (Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero); annuncia a tutti la necessità del sonno come temporaneo ristoro dallo stare al mondo e l’inesorabile decadimento di ogni essere. È un messaggio agghiacciante, privo di qualsiasi speranza, poiché delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.
Anche qui Gozzano riutilizza la fonte solo limitatamente e a modo suo, preferendo giocare sulle note più lievi dell’esotismo paesaggistico: pur nella consapevolezza del proprio breve orizzonte, egli si concentra sull’attimo in cui la tenebra cede al sole e la natura si ridesta nel pieno splendore di un’alba tropicale annunciata dal suo squillante araldo.
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